L'ICI non versato dalla Chiesa Cattolica, dagli altri enti ecclesiastici e associazioni sportive dovrà essere recuperato dallo Stato italiano. Questo è quanto stabilito dalla Corte di giustizia dell'Unione europea nella sentenza del 6 novembre 2018, con cui ha annullato la decisione della Commissione 2013/284/UE e riformato la sentenza del 15 settembre 2016 del Tribunale (causa T-220/13).
In particolare, la Corte ha respinto l'argomento della Commissione e fatto proprio dal giudice di primo grado, incardinato sull’impossibilità di procedere al recupero dell’aiuto nonostante la sua illegittimità, a motivo delle “difficoltà oggettive” riscontrate in sede di sua quantificazione e identificazione dei singoli destinatari. Il ricorso che aveva ad oggetto il c.d. “regime IMU” è stato invece respinto, confermando sul punto la decisione del Tribunale.
L’ Associazione Nazionale Comuni Italiani (“ANCI”) ha stimato che la cifra totale da recuperare si aggirerebbe tra i 4 e i 5 miliardi di euro.[1] Gli effetti della sentenza graveranno su tutti gli enti non commerciali che nel recente passato hanno beneficiato di indebiti privilegi fiscali in violazione dell’art. 107, paragrafo 1, del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (di seguito “TFUE”), tanto quelli appartenenti alle confessioni religiose riconosciute, quanto quelli del terzo settore.
1. Ricostruzione del contesto fattuale e antecedenti giudiziali
La vicenda in esame ha tratto origine dalle denunce presentate alla Commissione europea dalla Scuola Elementare Maria Montessori e dal Signor Pietro Ferracci nel periodo 2006-2007.
Tali denunce riguardavano l’asserita violazione da parte della Repubblica Italiana della disciplina sugli aiuti di Stato dettata dal TFUE. Per i denuncianti, difatti, dovevano qualificarsi come aiuti incompatibili con il mercato interno:
- la modifica dell’esenzione dall’applicazione dell’imposta comunale sugli immobili (“ICI”). Fino al 1992, tale esenzione riguardava solamente la totalità degli enti non commerciali. Tuttavia, a seguito dell’introduzione di un emendamento nel 2006, l’esenzione doveva applicarsi ad enti ecclesiastici e associazioni sportive dilettantistiche “a prescindere dalla loro natura eventualmente commerciale”.[2]
- il regime previsto dall’art. 149, comma IV, del Testo Unico delle Impose sui Redditi (DPR 917/86 – “TUIR”), rubricato “perdita della qualifica di ente non commerciale”. La perdita della qualifica, ai sensi della disciplina richiamata, risulta difatti legata all’esercizio prevalente di attività commerciale da parte dell’ente per un intero periodo d’imposta. I criteri alla luce dei quali verificare tale circostanza sono indicati dal secondo comma della norma, e sono legati a parametri specifici quali le immobilizzazioni, i ricavi, i redditi e le attività negative che afferiscono ad un’attività, appunto, commerciale. Si statuisce, tuttavia, allo stesso art. 149, comma IV, che le disposizioni riguardanti la perdita della qualifica (e, conseguentemente, del favorevole regime fiscale che si accompagna per legge agli enti non commerciali) non trovano applicazione nei riguardi di enti ecclesiastici riconosciuti come persone giuridiche e associazioni sportive dilettantistiche.
La situazione illustrata, veniva a mutare nel febbraio 2012, quando le autorità italiane comunicavano la volontà di sostituire la vecchia ICI con il nuovo regime dell’Imposta Municipale Unica (“IMU”), introdotto con il d.l. 201/2011 (c.d. “decreto salva-Italia”), ma già preannunciato dal decreto legislativo 23/2011.
Anche nel nuovo regime IMU era presente un’esenzione dall’imposta sugli immobili per gli enti privi di natura commerciale, limitata però alle attività specifiche di enti non commerciali esercitate con modalità non commerciali. Venivano inoltre all’uopo previste specifiche ipotesi di calcolo d’imposta in caso di uso promiscuo (commerciale/non commerciale).
Alla luce delle modifiche nel frattempo intervenute, nel dicembre 2012, la Commissione europea concludeva la procedura di indagine formale e adottava la decisione 2013/284/UE (di seguito la “Decisione”), contenente due prescrizioni precise. In primo luogo, la stessa dichiarava che l’esenzione ICI costituiva aiuto di Stato incompatibile con il mercato interno in violazione dell’art. 108 TFUE ma, date le specificità del caso in esame, ometteva di ordinarne il recupero. In particolare, la Commissione giustificava tale ultima statuizione invocando il lungo tempo trascorso dai periodi d’imposta rilevanti ai fini del calcolo dell’onere tributario, e la conseguente impossibilità di stabilire retroattivamente il dovuto a causa della mancanza di dati fiscali e catastali adeguati. La decisione, in secondo luogo, dichiarava che il regime recato dall’art. 149, comma IV, TUIR, così come la nuova esenzione predisposta dal nuovo regime IMU, non costituivano aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 par. 1, TFUE.
Avverso la richiamata Decisone, nel 2013 proponevano impugnazione dinanzi al Tribunale dell’Unione europea sia il Signor Ferracci sia la Scuola Elementare Maria Montessori, con i ricorsi iscritti a ruolo sotto i numeri T-219/13 e T-220/13, successivamente riuniti con ordinanza del novembre 2015.
Oggetto dell’impugnazione erano due parti distinte della Decisione. Nella prima veniva censurata l’argomentazione che aveva condotto a non ordinare il recupero dell’aiuto (cioè il regime ICI) dichiarato illegittimo. Nella seconda era invece contestato che le discipline di cui all’art. 149, comma IV, TUIR e alla nuova legge IMU fossero state dichiarate non costitutive di aiuti di Stato.
Per parte sua, la Commissione fondava il proprio controricorso innanzitutto sull’inammissibilità delle impugnazioni avversarie, asserendo la carenza della legittimazione ad impugnare (argomento procedurale) e in subordine affermando la loro infondatezza (argomento sostanziale). La trattazione della questione procedurale veniva comunque riunita dal Tribunale al merito.
Quanto al primo aspetto, la Commissione affermava in particolare che la Decisione impugnata non riguardava né individualmente né direttamente i ricorrenti; allo stesso modo, essa argomentava che la Decisione non poteva essere considerata né un atto regolamentare (essendo indirizzata solo allo Stato membro erogante l’aiuto), né un atto non comportante misure di esecuzione ai sensi dell’art. 263, par. IV, TFUE.
Le censure di ricevibilità della Commissione venivano tuttavia rigettate dal Tribunale, il quale pur risolvendo positivamente la questione della legittimazione ad impugnare dei ricorrenti, nondimeno respingeva nel merito le loro doglianze.
In primo luogo, difatti, il Tribunale dichiarava che, per quanto illegittimo, non era comunque possibile procedere al recupero dell’aiuto identificato dalla Decisione, stante l’oggettiva impossibilità di determinare retroattivamente l’importo dell’aiuto stesso, frammentato per i numerosissimi beneficiari nel corso degli anni. Il giudice di primo grado confermava dunque la correttezza dell’approccio adottato dalla Commissione nella Decisione impugnata.
Allo stesso modo, il Tribunale confermava la conclusione della Commissione per cui non poteva ravvisarsi aiuto di Stato nel regime IMU delle esenzioni per enti non commerciali, invocando a sostegno di ciò la consolidata giurisprudenza in materia di nozione di impresa (Pavlov, C-180/98) e retribuzione del servizio scolastico (Wirth, C-109/92), letta in uno con la normativa “incriminata” in materia di IMU (decreto e regolamento di attuazione). In base a tale analisi, difatti, risultava che l’esenzione avrebbe potuto in effetti applicarsi solamente ad enti privi della natura di impresa, in quanto non operanti attività economiche ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE.
2. Analisi della sentenza di appello della Corte di Giustizia dell’Unione Europea
La sentenza del Tribunale è stata impugnata innanzitutto dalla Scuola Elementare Maria Montessori, con ricorso avente ad oggetto le parti della pronuncia riguardanti i regimi ICI (mancato recupero) e IMU (erroneamente non fatto rientrare nell’ambito di applicazione del 107 TFUE). Tale ricorso ha dato origine alla causa C-622/16. La Commissione, sostenuta dalla Repubblica Italiana, si ha assunto qui le vesti di resistente ed ha chiesto il rigetto dell’impugnazione.
Inoltre, dal canto suo, la Commissione ha impugnato la sentenza del Tribunale nella parte in cui ha dichiarato ricevibili i ricorsi di primo grado dei denuncianti, ai sensi dell’art. 263, par. IV, 3° frase TFUE. Tale oggetto hanno le cause C-623/16 e C-624/16.
Tutte le cause sono state riunite dalla Corte – con decisione del Presidente - ai fini della fase orale e della sentenza nell’aprile 2017, e sono state definite con la sentenza dello scorso 6 novembre, oggetto del presente contributo.
2.1 La questione della legittimazione ad agire
La trattazione operata dalla Corte di giustizia ha preso le mosse dalle censure in punto di ricevibilità spiegate dalla Commissione, la quale ha imputato al Tribunale di aver disatteso e male interpretato ciascuno dei tre requisiti cumulativi dell’art. 263, par. IV, 3° frase, TFUE, e, più precisamente:
(a) di aver qualificato erroneamente la Decisione controversa in termini di atto regolamentare;
(b) di aver riscontrato erroneamente un’incidenza diretta della Decisione impugnata in capo ai ricorrenti;
(c) di aver erroneamente ritenuto la mancata necessità di misure di esecuzione della Decisione impugnata.
2.1.a Atto di portata generale e suo carattere regolamentare
Con il primo capo di impugnazione, la Commissione ha dedotto tre principali profili.
In primo luogo, essa ha sostenuto che risulta erroneo classificare qualunque atto “di portata generale” e non legislativo (ie non introdotto tramite procedura legislativa) come dotato di natura regolamentare ai sensi dell’art. 263, par. IV, TFUE.
In secondo luogo, essa ha argomentato che è errato desumere la natura regolamentare dell’atto comunitario da impugnare dalla (mera) portata generale della misura nazionale che ne ha costituito l’oggetto.
Infine, la Commissione ha anche sostenuto che, a proprio avviso, il Tribunale aveva commesso un errore di diritto nel riconoscere portata generale a ciascuna delle tre parti della decisione contestata, dal momento che quantomeno la prima riguardava solo una cerchia ristretta di soggetti.
In ordine al primo profilo contestato, nella sentenza di appello, la Corte di giustizia ha richiamato innanzitutto la ratio espansiva della 3° frase all’art. 263, par. IV, TFUE, introdotta alla norma dal Trattato di Lisbona. Tale ratio, difatti, deve desumersi inequivocabilmente dai lavori preparatori del Trattato, rispondendo la nuova norma all’esplicito obiettivo di restringere quanto più possibile la categoria degli atti sprovvisti di tutela giurisdizionale comunitaria, da ridursi essenzialmente a quelli aventi natura legislativa.
Tanto premesso, la Corte ha precisato che ai fini della classificazione di un atto come “regolamentare”, la giurisprudenza Inuit (C-583/11, pp. 58-61) ravvisa tale qualificazione in qualunque atto avente portata generale e carattere non legislativo (pp. 22-28).
Tale concetto è stato successivamente sviluppato dalla Corte ai pp. 29-33 della pronuncia, tramite il richiamo alla giurisprudenza Zuckerfabrick, secondo la quale deve definirsi atto “avente portata generale” quell’atto che “si applica a situazioni determinate obiettivamente e [che] produce effetti giuridici nei confronti di categorie di persone considerate in maniera generale e astratta” (sentenza dell’11 luglio 1968, causa 6/68, pag. 542). La portata della massima è stata poi messa in relazione dalla Corte con un’altra definizione, quella cioè di “regime di aiuti”, prevista dall’art. 1, lettera (d), del Reg. 659/99/CE (ora sostituito dal Reg. UE 1589/2015) nei termini seguenti: “atto in base al quale, senza che siano necessarie ulteriori misure di attuazione, possono essere adottate singole misure di aiuto a favore di imprese definite nell'atto in linea generale e astratta e qualsiasi atto in base al quale l'aiuto, che non è legato a uno specifico progetto, può essere concesso a una o più imprese per un periodo di tempo indefinito e/o per un ammontare indefinito”.
Dunque, i giudici di Lussemburgo hanno concluso nel senso che le decisioni volte ad autorizzare o vietare un regime di aiuti nazionale hanno portata generale in quanto conformi alla “regola Zuckerfabrik”.
In ultimo, la Corte ha toccato la problematica della potenziale incidenza (soltanto) individuale della decisione di recupero sui beneficiari del regime di aiuti. Tali beneficiari si troverebbero esposti al rischio di veder recuperati i vantaggi percepiti. Da questo solo fatto, argomenta la Corte, non può tuttavia desumersi la mancanza di portata generale e dunque del carattere regolamentare della Decisione impugnata, carattere che invece ricorre in ossequio alla già citata “regola Zuckerfabrick”. La Corte, più precisamente, ha ritenuto che nel caso di specie la regola doveva ritenersi soddisfatta, dal momento che la decisione di mancato recupero aveva determinato la persistenza degli effetti anticoncorrenziali dell’aiuto erogato, circostanza che pertanto aveva determinato la produzione di effetti giuridici “nei confronti di categorie di persone considerate in maniera generale e astratta” (pp. 34-39).
2.1.b Incidenza diretta e rapporto di concorrenza
Come anticipato, con il secondo capo di impugnazione la Commissione ha sostenuto che il Tribunale avrebbe commesso un errore di diritto nel desumere l’incidenza diretta della Decisione impugnata dalla semplice ricorrenza di un rapporto di concorrenza meramente potenziale dei ricorrenti con i beneficiari del regime di aiuti. Secondo la Commissione, al contrario, ciò che avrebbe dovuto essere provato dalle sue controparti era la presenza di un’incidenza sufficientemente concreta degli effetti della misura nei loro confronti.
Al riguardo, la soluzione data dalla Corte di giustizia ha argomentato a partire dalla definizione giurisprudenziale di “incidenza diretta”. Difatti, sin dalla causa Glencore Grain/Commissione (C-404/96), la verifica di tale requisito ha richiesto la compresenza di due criteri cumulativi, ossia, da un lato, della produzione di effetti diretti sulla sfera giuridica del singolo da parte della misura e, dall’altro, della mancanza di qualunque discrezionalità in capo alle autorità cui è demandata l’attuazione della stessa (attuazione che, di conseguenza, deve avere carattere meramente automatico e derivare dalla sola normativa dell’Unione).
Tanto precisato, la Corte ha posto l’accento sull’obiettivo delle disposizioni del Trattato in materia di aiuti di Stato, cioè quello di preservare la concorrenza tra gli operatori economici operanti nel mercato interno. Di tale obiettivo è riflesso il diritto dei singoli operatori a non subire (e dunque a reagire a) una situazione concorrenziale falsata. Giocoforza, la decisione che lascia impregiudicato il regime di aiuti può a buon diritto dirsi incidere direttamente sulla situazione giuridica dei ricorrenti, dal momento che la stessa li pone in una situazione di oggettivo svantaggio economico.
Quanto alla concreta dimostrazione della ricorrenza di una incidenza diretta nel caso di specie, la Corte ha tuttavia chiarito in maniera netta che tale requisito non può essere desunto da una mera possibilità di rapporto concorrenziale.
A questo fine, difatti, i giudici comunitari hanno precisato che occorre una pertinente illustrazione delle ragioni per cui la misura sarebbe idonea a porre il ricorrente in una situazione di svantaggio. Il Tribunale aveva invece desunto l’incidenza diretta tout court dalla potenziale sussistenza di un rapporto concorrenziale tra i ricorrenti e le imprese beneficiarie, senza dare alcun peso alle circostanze concretamente caratterizzanti il caso di specie.
Ebbene, in un tale automatismo la Corte ha ravvisato un errore, ma ha ammesso (sempre alla luce della sua giurisprudenza, vd. Consiglio/LTTE, C-599/14, pp.75 ss.) la sostituzione della motivazione, ritenendo comunque fondata – benché su altri motivi di diritto – la decisione di primo grado. Ulteriormente specificando, la Corte ha inoltre precisato di considerare rispettato il c.d. “principio della pertinente illustrazione” nel caso di specie, dal momento che i ricorrenti avevano infatti addotto non solo la immediata vicinanza geografica delle aziende, rispettivamente, loro e degli enti ecclesiastici/religiosi avvantaggiati dalle misure contestate, oltre ad aver anche dimostrato la coincidenza sostanziale e territoriale dei mercati coinvolti. Provata dunque la situazione di oggettivo svantaggio, la Corte ha ritenuto dimostrata anche l’incidenza diretta della Decisione impugnata.
2.1.c Le misure di esecuzione
Infine, con riferimento alla terza parte della censura di ricevibilità sollevata dalla Commissione, la stessa ha sostenuto che il Tribunale sarebbe incorso in un errore di diritto laddove aveva affermato che gli atti nazionali di attuazione del regime di aiuto non costituivano misure di esecuzione nei confronti del sig. Ferracci e della Scuola Elementare Maria Montessori. In particolare, ad avviso della Commissione, il Tribunale aveva erroneamente respinto il suo argomento per cui i ricorrenti avrebbero potuto chiedere di beneficiare del trattamento fiscale favorevole riservato ai loro concorrenti e promuovere un’azione dinanzi al giudice nazionale contro il diniego dell’amministrazione, contestando la validità della decisione controversa in quella occasione. In questo senso, è stato pertanto censurato che l’approccio adottato dal Tribunale nella sentenza impugnata non risultava conforme alla pronuncia Telefónica c. Commissione (C‑274/12 P, EU:C:2013:852), costituente giurisprudenza consolidata. Nel giudicare la questione, la Corte di giustizia ha pertanto seguito e ampliato l’iter argomentativo seguito nel contesto di tale pronuncia.
È indubbio che la giurisprudenza Telefonica rechi in sé alcune massime di indiscutibile e fondamentale importanza.
i) Su tutte - e in primo luogo – vi è il principio per cui deve evitarsi per quanto possibile che i singoli siano costretti a violare la legge (ie il diritto comunitario) per poter accedere alla tutela giurisdizionale. In proposito, la Corte ha ricordato che: “qualora un atto regolamentare produca direttamente effetti sulla situazione giuridica di una persona fisica o giuridica senza richiedere misure di esecuzione, quest’ultima rischierebbe di essere privata di tutela giurisdizionale effettiva se non disponesse di un rimedio dinanzi al giudice dell’Unione al fine di contestare la legittimità di detto atto regolamentare. Infatti, in mancanza di misure di esecuzione, una persona fisica o giuridica, ancorché direttamente interessata dall’atto in questione, non sarebbe in grado di ottenere un controllo giurisdizionale dell’atto se non dopo aver violato le disposizioni dell’atto medesimo facendone valere l’illegittimità nell’ambito dei procedimenti avviati nei suoi confronti dinanzi ai giudici nazionali” (punto 27).
Tale la situazione di un atto che non comporta misure di esecuzione, quando per contro delle m.d.e. si diano, sono queste stesse a dover essere impugnate. In questo caso il sindacato circa il rispetto delle norme UE è garantito indipendentemente dalla provenienza di dette misure (punto 28).
ii) L’attenzione va poi posta sul soggetto deputato all’attuazione dell’atto in questione: una distinzione necessaria corre tra la messa in atto ad opera di istituzioni, organi e organismi dell’Unione, e tra quella ad opera degli Stati Membri. Tale fondamentale distinzione si riflette, come esplicitato al punto 29 di Telefonica, in relazione all’atto impugnabile per far valere l’illegittimità dell’atto stesso. Nel primo caso il ricorso è da proporsi avanti la Corte di giustizia, deducendo l’illegittimità dell’atto di base. Nel secondo caso, invece, va sollecitato l’organo giurisdizionale nazionale avanti al quale si impugna l’atto di base a proporre rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE.
iii) Infine, onde valutare se effettivamente l’atto considerato comporti m.d.e. deve aversi riguardo alla specifica posizione della persona che invoca il diritto impugnare. Bisogna avere, in sostanza, esclusivo riguardo all’oggetto del ricorso (pp. 30-31).
Con approccio sistematico, la Corte di giustizia ha pertanto ragionato sull’applicazione dei “parametri Telefonica” al caso di specie.
La decisone di non ordinare il recupero non comportava alcuna m.d.e. Poteva infatti essere impugnata sia avanti i giudici nazionali sia avanti la Corte di Giustizia.
Al contrario, l’aver dichiarato non costitutivi di aiuti di Stato i regimi delle esenzioni previste dall’art. 149, comma IV, TUIR e dal decreto IMU, comportava delle m.d.e. Il richiamo è, ancora una volta, ai punti 35-36 di Telefonica, secondo cui: “per i beneficiari di un regime di aiuti, le disposizioni nazionali che istituiscono tale regime e gli atti di attuazione di dette disposizioni, come un avviso di accertamento, costituiscono misure di esecuzione che una decisione, la quale dichiari tale regime incompatibile con il mercato interno o lo dichiari compatibile con il mercato a patto che vengano rispettati gli impegni assunti dallo Stato membro interessato, comporta”.
La Corte ha richiamato puntualmente anche la ragione giustificativa di tale giurisprudenza, che trova compiuta esposizione ai punti 36 e 59 di Telefonica.
Il problema di fondo consiste sempre nel garantire la possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale ai beneficiari di un regime di aiuti. Per fare questo, la Corte delinea un procedimento giuridico ipotetico. In primo luogo, laddove dotato del diritto e dei requisiti necessari, il beneficiario avrebbe l’onere di richiedere all’autorità nazionale di riconoscergli l’aiuto, facendone formale richiesta. Sarebbe vigente, sostiene la Corte, una sorta di fictio iuris: in pratica, la questione andrebbe trattata come se ci fosse una decisione incondizionata della Commissione che dichiara l’aiuto compatibile con il mercato interno. Così argomentando e in forza di tale espediente, se astrattamente la sua richiesta venisse rigettata, il beneficiario potrebbe allora censurare l’invalidità della decisione che dichiara l’aiuto incompatibile (o condizionatamente compatibile) con il mercato interno in sede di impugnazione del rigetto da parte dell’amministrazione, “al fine di indurre l’organo giurisdizionale nazionale a interrogare la Corte in merito alla validità della decisione della Commissione relativa alla suddetta misura” (punto 66).
Tanto precisato, la Corte ha profilato nettamente la distinzione tra il caso di specie e la logica sottostante la giurisprudenza Telefonica, che pertanto è risultata insuscettibile di applicazione. In particolare, la Corte ha evidenziato che la Scuola Elementare Maria Montessori non era uno dei potenziali beneficiari del regime di aiuti, ma una concorrente di questi ultimi, in quanto tale indebitamente svantaggiata dal regime. La ricorrente, in quanto ente diverso da enti ecclesiastici e associazioni sportive dilettantistiche, non aveva dunque i requisiti per poter beneficiare – nemmeno astrattamente – dell’aiuto. In tali circostanze, ha sostenuto la Corte, sarebbe allora “artificioso” (comportando allora un’indebita forzatura) costringere il ricorrente a richiedere (e successivamente ad impugnare) un beneficio cui non ha, fin dall’inizio, diritto.
2.2 La questione della correttezza della dichiarazione di mancato recupero
Risolta positivamente la questione di ricevibilità, la Corte di giustizia è passata ad esaminare il merito del giudizio di impugnazione, avente ad oggetto le censure dedotte dalla Scuola Elementare Maria Montessori. Questa, in particolare, aveva avanzato dinanzi alla Corte deduce due motivi, il primo riguardante il mancato ordine di recupero contenuto nella decisone controversa, il secondo relativo all’esenzione nel nuovo regime IMU.
2.2.a Il primo motivo, relativo al mancato ordine di recupero
Per quanto qui interessa, nella prima parte (di quattro) del primo motivo, la Scuola Maria Montessori ha sindacato la correttezza della Decisione controversa nella parte in cui, pur avendo appurato che l’esenzione ICI integrava illegittimo aiuto di Stato, aveva omesso di ordinarne il recupero, reputato “assolutamente impossibile”.
In particolare, la ricorrente ha contestato in primo luogo la stessa esistenza di un potere della Commissione di constatare l’impossibilità assoluta di procedere al recupero di aiuti illegali sin dalla fase del procedimento di indagine formale – come avvenuto nel caso di specie -, e non solamente nella fase esecutiva, ossia a seguito dell’ingiunzione dell’ordine di recupero.
La ricorrente, inoltre, ha messo in discussione la nozione di “impossibilità assoluta” accolta dalla Commissione e confermata dal Tribunale, trattandosi invero nel caso di specie di impossibilità di eseguire integralmente l’ordine di recupero dovuta a difficoltà e circostanze “puramente interne”. Infine, ad avviso della Scuola elementare Maria Montessori, il Tribunale avrebbe violato la corretta ripartizione dell’onere della prova circa l’esistenza di modalità alternative che avrebbero consentito il recupero (anche parziale) degli aiuti in questione, nonché sarebbe incorso nel travisamento di alcuni elementi di prova, in relazione alla possibilità di ottenere le informazioni necessarie al recupero avvalendosi delle banche dati fiscali e catastali italiane.
Avverso tali censure, la Commissione e la Repubblica Italiana hanno resistito adducendo la conformità del mancato ordine di recupero al Reg. 659/99 e si sono richiamate al principio “ad impossibilia nemo tenetur”, asserendo che l’impossibilità in questione può derivare anche dalla stessa normativa nazionale. Infine, le stesse hanno sostenuto che gravava sulla parte ricorrente l’onere della prova circa l’esistenza di modalità alternative di recupero, anche parziale, dell’aiuto.
Nel pronunciarsi al riguardo, la Corte di giustizia ha innanzitutto ricordato che la conseguenza normale di una decisione negativa in materia di aiuti di Stato è l’obbligo per lo Stato membro erogante di adottare tutte le misure necessarie al recupero degli aiuti concessi. E ciò sempre alla luce dell’obiettivo sottostante all’intera disciplina degli aiuti di Stato, e cioè la necessità di eliminare l’effetto distorsivo della concorrenza determinato dagli aiuti illegali e incompatibili con il mercato interno.
Cionondimeno, come esplicitato dall’art. 14, par. 1, seconda frase del Reg.659/99, la Corte ha ricordato che il recupero può non essere ordinato laddove si ponga in contrasto con un principio generale del diritto dell’Unione europea. Il principio “ad impossibilia nemo tenetur” - lo ricorda la corte richiamandosi alla sentenza Daimler (C-179/15) - è parte di tali principi generali.
Tanto premesso, e sempre alla luce del testo dell’art. 14, par. 1, seconda frase, del Reg. 659/99, la Corte ha inoltre confermato la pronuncia del Tribunale, nella misura in cui aveva riconosciuto che sin dalla fase delle indagini la Commissione può constatare l’impossibilità assoluta di procedere al recupero degli aiuti illegali. Già da dalla causa Belgio c. Commissione (C-75/95) i giudici comunitari hanno infatti riconosciuto che la Commissione è priva non solo del potere di implementare, ma anche di quello adottare un ordine di recupero la cui esecuzione apparisse fin da subito impossibile da realizzare.
Al riguardo, la Corte ha inoltre ricordato che il principio di leale cooperazione, invocato in questo frangente dalla ricorrente, non obbliga a che ad ogni decisone negativa segua inevitabilmente un ordine di recupero. Obbliga invece a prendere in seria considerazione gli argomenti presentati dallo Stato membro interessato che adduce un’impossibilità assoluta di procedere al recupero (punto 84).
Quanto al lamentato snaturamento degli elementi di prova, dedotto nel quarto capo del primo motivo, la Corte si è limitata ricordare che un vizio siffatto, alla luce delle disposizioni del Trattato, del suo regolamento di procedura e della sua stessa giurisprudenza (Comitato “Venezia vuole vivere” e a. c. Commissione, cause C-71,73,76/09), deve emergere manifestamente dagli atti di causa, circostanza che non risultava soddisfatta nel caso di specie, non essendo stati addotti sul punto elementi di prova da parte della ricorrente (punti 86 e 88).
Tuttavia, con riferimento al cuore della censura delle ricorrenti, ossia alla questione della concreta ricorrenza, nel caso di specie, di una effettiva “impossibilità assoluta” di procedere al recupero degli aiuti, la Corte ha superato il ragionamento del Tribunale, affermando in modo deciso che una mera impossibilità interna di esecuzione della Decisione della Commissione, sia essa di natura “giuridica, politica o pratica, imputabile alle azioni o alle omissioni delle autorità nazionali”, non costituisce impossibilità assoluta alla luce della consolidata giurisprudenza della Corte (Commissione/Francia, C-214/07, Commissione/Francia, C-37/14, citata al punto 91 della pronuncia).
La Corte, in particolare, ha fortemente valorizzato il fatto che, nel caso di specie, lo Stato italiano aveva omesso qualsiasi iniziativa concretamente volta al recupero (anche parziale) dell’aiuto presso le imprese beneficiarie o all’adozione di misure alternative per procedervi.
L’Italia, inoltre, in tali circostanze aveva omesso di esporre le difficoltà riscontrate alla Commissione europea. Come sottolineato dalla Corte, una tale informativa risultava invece doverosa, stante l’obbligo degli Stati membri, in presenza di peculiari difficoltà nell’attuazione di una decisione recupero, di “cooperare lealmente al fine di sormontarle, in particolare proponendo modalità alternative che consentano il recupero, anche solo parziale, di detti aiuti” (punto 92). Tanto premesso, la Corte ha inoltre precisato che, a fronte di una tale informativa, è obbligo della Commissione esaminare minuziosamente le difficoltà e le eventuali modalità alternative di messa in atto prospettate, con la conseguenza che solamente ove la stessa concluda che non esistono modalità alternative che consentano il recupero (quantunque parziale) degli aiuti concessi, questo potrà essere considerato impossibile obiettivamente e oggettivamente.
Nel caso di specie, dal momento che tale iter logico e procedimentale non era stato seguito dalle autorità italiane e dalla Commissione, i giudici di Lussemburgo hanno ravvisato un errore di diritto nella valutazione del Tribunale. La Commissione, infatti, “si [era] limitata (…) a dedurre l’impossibilità assoluta di recuperare gli aiuti illegali in questione dal solo fatto che era impossibile ottenere le informazioni necessarie per il recupero di tali aiuti avvalendosi delle banche dati catastali e fiscali italiane, e si è al contempo astenuta dall’esaminare l’eventuale esistenza di modalità alternative che consentissero il recupero, anche solo parziale, di tali aiuti” (punto 93).
Al contrario, ad avviso della Corte, il problema relativo alla mancanza di informazioni attendibili provenienti dalla banche dati fiscali e catastali nazionali costituisce una mera difficoltà interna, non rispondente cioè alla definizione di “impossibilità assoluta” esposta più sopra, e come tale non idonea a giustificare l’omessa adozione dell’ordine di recupero (punti 96 e 97).
Infine, la Corte ha precisato che tale ragionamento, letto in uno col dispositivo dell’art. 14, par. 1, seconda frase, del Reg. 659/99, comporta come corollario che l’onere della prova circa l’impossibilità di procedere al recupero degli aiuti gravava sulla Commissione europea; al contrario, la Scuola Elementare Maria Montessori non aveva alcun onere di dimostrare l’esistenza di soluzioni alternative per il recupero.
2.2.b Il secondo motivo, relativo all’esenzione nel regime IMU
Nella seconda parte del ricorso, la Scuola Elementare Maria Montessori aveva lamentato che il Tribunale era incappato in un errore di diritto per aver dichiarato non costitutiva di aiuto di Stato ex 107 TFUE l’esenzione dall’IMU prevista dal d.l. 201/2011.
Come già fatto in primo grado dal Tribunale, la Corte ha in proposito fatto richiamo dei precedenti relativi alla qualificazione come “impresa” di un soggetto economico alla luce del diritto comunitario (Cassa di risparmio di Firenze e a., C-222/04), inteso come qualunque soggetto che eserciti un’attività economica a prescindere dal suo status giuridico e dall’entità e modalità di finanziamento. Attività economica, a sua volta, significa offrire beni e servizi su un determinato mercato, vale a dire offrire prestazioni a fronte di una remunerazione. Come la Corte ha avuto modo di ribadire più volte nei suoi precedenti, per quanto attiene alle attività didattiche, esse costituiscono servizi laddove offerti a fronte e in vista di una remunerazione. Il Tribunale, come sopra ricordato, arguiva che l’esenzione IMU si applicava “solo alle attività didattiche fornite a titolo gratuito o dietro pagamento di un importo simbolico che coprisse soltanto una frazione del costo effettivo del servizio, frazione che non doveva essere collegata a tali costi”.
Tanto premesso, ricordato che l’interpretazione di una norma di diritto nazionale da parte del Tribunale è censurabile avanti alla Corte di giustizia solamente in ragione di uno snaturamento di tale diritto, e posto che nel caso di specie una simile doglianza non era stata dedotta, la Corte ha rilevato che il secondo motivo avanzato dalla ricorrente non poteva essere accolto.
2.3 Le prospettive aperte dalla decisione della Corte
La sentenza analizzata reca con sé alcune prese di posizione davvero fondamentali nel campo del diritto degli aiuti di Stato. Su tutte, sono due i principi cruciali che paiono trasparire dal dettato della pronuncia.
In primo luogo, è riconosciuta per la prima volta la legittimazione all’impugnazione in sede comunitaria di un regime di aiuti di Stato ai competitors dei beneficiari di tale regime. La particolarità della situazione in esame, che vedeva una decisione negativa della Commissione che tuttavia ometteva di ordinare il recupero dell’aiuto illegittimo, ha, per così dire, “elevato” il ruolo dei concorrenti da meri intervenienti a veri e propri promotori del giudizio. Prima di questo caso, l’unico potere degli operatori in concorrenza con i beneficiari dell’aiuto era infatti quello di sottoporre una denuncia alla Commissione stessa, onde stimolare quest’ultima a occuparsi delle misure in questione e aprire, se del caso, un procedimento di indagine formale a carico dello Stato membro erogante.
In secondo luogo, e soprattutto, la Corte ha confermato in maniera decisa e netta che non ogni asserita impossibilità interna di procedere al recupero integri la nozione di impossibilità assoluta fatta propria dal giudice comunitario. Ragioni, per quanto gravi, di carattere politico, economico o legale non sono, potremmo dire, “esimenti”. Implicitamente, questo si traduce nella considerazione che uno Stato membro non può in alcun modo avvantaggiarsi di un inadempimento a un preciso obbligo di legge (cioè la disciplina sugli aiuti di Stato contenuta nei Trattati dell’Unione Europea), paradossalmente per eludere le conseguenze dell’inadempimento stesso (l’ordine di recupero). Il terreno, data la sua novità ed eccezionalità, va mantenuto scevro da ogni automatismo: la Commissione, infatti, è ammessa a constatare che le impossibilità interne prospettate assurgono al livello di impossibilità solo all’esito di un complesso e continuo dialogo con lo Stato membro, tese alla minimizzazione degli effetti distorsivi e sempre e comunque al recupero, quantunque parziale, della misura illegittima.
A questo punto, il recepimento della pronuncia dovrà avvenire da parte della Commissione, che sarà tenuta all’emanazione di un nuovo atto conforme al dispositivo sentenza. La Direzione Generale della Concorrenza sarà pertanto chiamata, in prospettiva, a valutare in uno con l’Italia una strategia di recupero dei tributi sugli immobili non riscossi nel periodo 2006-2012, cioè dall’introduzione dell’esenzione ICI al momento di sostituzione della stessa con l’IMU. Fondamentale in questo ambito sarà il ruolo dei Comuni, ora come in passato sono deputati alla riscossione dei tributi sulle proprietà immobiliari. Proprio tali enti locali avranno il compito di stabilire l’entità degli importi da recuperare.
Non va dimenticato che in caso di mancata ottemperanza agli obblighi imposti dalla sentenza, la Commissione potrebbe decidere di attivare una procedura di infrazione (accelerata) nei confronti dello Stato italiano avanti alla Corte di giustizia.
[1] Corte Ue: Italia recuperi Ici non versata da Chiesa ed enti non profit. Sono almeno 4 miliardi, ne Il Sole 24Ore, 6.11.2018, consultabile presso: https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-11-06/corte-ue-italia-recuperi-ici-non-versata-chiesa--094301.shtml?uuid=AELecebG [ultimo accesso 30.11.2018].
[2] In particolare, come precisato ai punti da 20 a 23 della decisione della Commissione di avvio del procedimento di indagine ex art. 108, par. 2, TFUE, il sistema normativo relativo all'ICI era stato introdotto col Decreto legislativo n. 504/92. In quel contesto, soggetti passivi dell'imposta erano tutte le persone fisiche e giuridiche in possesso di immobili, sia residenti che non, ed indipendentemente dall'uso fatto dell'immobile. L’unica eccezione, al riguardo, era prevista dall’art. 7, primo comma, lettera i), della medesima normativa, ai sensi del quale risultavano totalmente esenti dall'imposta gli immobili utilizzati da enti non commerciali, destinati esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive, nonché di attività di religione e di culto.
Nel quadro illustrato, tuttavia, erano intervenuti in un secondo momento l'art. 7, comma 2-bis del Decreto legge n. 203/2005, convertito con legge 2 dicembre 2005 n. 248, e l’articolo 39 del Decreto legge n. 223/2006, in base ai quali l'esenzione pocanzi richiamata doveva intendersi applicabile alle attività indicate anche se aventi natura commerciale, purché non si trattasse di attività dotate di natura esclusivamente commerciale (cfr. Decisione della Commissione del 12.10.2010, C(2010) 6960 definitivo, Aiuto di Stato C 26/2010 (ex NN 43/2010 (ex CP 71/2006)) – Italia Regime riguardante l'esenzione dall'ICI per gli immobili utilizzati da enti non commerciali per fini specifici, in GU C 348, 21 dicembre 2010, pag. 17 e ss.).